«Chi chiami nera? Nessuno prenderà sul serio uno schiavo come te. Torna in Africa, dove appartieni!» tuonò il sergente Cole.
Il suo nome non fu nemmeno richiesto. La sua pelle fu l’unica cosa che l’agente notò, lasciando quindi che il suo disprezzo si manifestasse in parole velenose.
Il generale Regina M. Cal batté le palpebre, confusa non tanto dalle parole, quanto dal tono dell’uomo.
L’uomo la scrutava con uno sguardo che la denigrava, come se il suo prestigio e dignità fossero privi di significato.
«Mi scusi, cosa vuole dire?» rispose con determinazione, mantenendo la voce calma.
«Qual è il problema, ufficiale?»
«Il problema è che sei seduta in un veicolo che non ti appartiene, indossando una divisa militare», intervenne l’ufficiale Henkins con una risata.
Attorno al veicolo fece un giro, simulando un’ispezione. «Le targhe del Pentagono, chi te le ha fornite? Il tuo padrino?»
Regina avvertì un brivido gelato lungo la schiena.
Due agenti, incapaci anche solo di decifrare il distintivo, la trattavano come se fosse spazzatura.
«Mi chiamo Generale Regina McCallum. State commettendo un grosso errore.»
«Stai zitta!» urlò Cole, estraendo le manette.
«Non mi interessa se pretendi di essere la nera Michelle O:ba_ma. Quest’auto è stata rubata e sei in arresto.»
In un attimo, Regina fu spinta con forza dal sedile; il freddo metallo delle manette le perforò la pelle, mentre veniva afferrata e costretta a piegarsi.
«Non piangere, cara,» sussurrò Kins con un sorriso disgustoso. «Spero che ti trattino meglio di come ci trattano in cella, altrimenti ti farai un bel po’ di lavoro sporco. Passami il cellulare.»
«Ti pentirai di avermi toccata», replicò Regina con fierezza.
«Il tuo telefono», sghignazzò Henkins, frugando nella sua borsa come fosse di sua proprietà.
«Che cos’è? Un dannato iPhone del governo. Questo paese è un disastro.»
Sollevò il dispositivo come se fosse una sostanza illecita trovata in un sacchetto e lo agitò di fronte a Regina, quasi per vantarsi di un trofeo.
«Chi te l’ha dato, ragazza nera? L’hai rubato o l’hai preso da qualche soldato dopo avergli fatto caldo?»
Il sergente Cole scoppiò in una risata amara, il suo tono rivelava decenni di odio repressi.
«Non mi sorprenderebbe se tutto ciò faceva parte di esperimenti per integrare l’esercito», commentò, mentre le manette le tracciavano segni rossi sui polsi.
«Adesso danno divise e titoli a chiunque. E guarda, sono persino in grado di parlare come si deve.»
Regina inghiottì a fatica, fissando l’asfalto rovente. «State infrangendo protocolli federali», riuscì a dire, con la voce tesa.
«Ti importa qualcosa, scimmia?» rispose Cole con un ghigno. «L’unica legge qui è la mia. E sul mio orologio, nessuna donna con un’aura enorme guida un veicolo del genere.»
Henkins aprì il vano portaoggetti e scaraventò fogli e documenti fuori come fossero rifiuti.
«Guarda qui, Cole.»
«Ha documenti segreti o crede che siano significativi? Questa donna si atteggia a qualcosa di importante. Forse dovremmo contattare l’immigrazione», continuò Cole, ridendo di nuovo.
Regina si sentì paralizzata. Il dolore ai polsi aumentava, il caldo le bruciava la pelle, e quell’ufficiale Henkins la attraversava come se fosse trasparente.
«Non avete idea di cosa stiate facendo», ripeté a voce bassa.
Henkins le afferrò il viso con una mano sporca e ruvide, costringendola a incrociare il suo sguardo.
«So solo che passerai la notte in cella, senza uniformi, senza nome, senza quel volto che dice: ‘Io valgo più di te’. Qui sei invisibile.»
Cole iniziò a leggere ad alta voce un documento estratto, una lettera del Dipartimento della Difesa indirizzata a MCAL.
«Ehi, Henkins, qui dice Generale di Brigata Regina MC Cal… uh-huh. Ci credi?»
«Sì, ci credo», rispose Regina a fatica, alzando appena il mento. «Se hai un minimo di intelligenza, restituimi quel telefono. Ora.»
Cole la colpì senza esitazione. Rapido e netto, facendola barcollare nonostante le manette. «Ancora un colpo, ragazza nera», bisbigliò vicino al suo orecchio. «E giuro che dimenticherai chi sei.
Il sapore del sangue le invase la bocca. Regina rimase in silenzio, senza piangere o supplicare. Dentro di sé, però, qualcosa si spezzava. Non paura, bensì una furia silenziosa, acuta e chirurgica.
«Adesso comprendi come funziona qui, Generale», sputò Cole, accovacciandosi per guardarla negli occhi. «Qui non sei al Pentagono, ma sulla mia highway.»
Regina distolse il sguardo verso il telefono. «Quel dispositivo è una connessione diretta. Ogni altra azione e tutto questo sarà vano.»
Henkins lo afferrò con forza, colpendolo contro il marciapiede. Regina rimase immobile.
Ma tre veicoli neri non contrassegnati giunsero silenziosamente, svelando uomini in abiti grigi, privi di distintivi, ma con l’aria di chi comanda. Uno di loro si avvicinò a Regina. «Generale M. Secal?» «Sì», rispose con sicurezza, il mento sollevato e le manette brillanti alla luce. «Puoi confermare di essere stata costretta?» «Sì.»
Un agente si avvicinò e con uno strumento specializzato aprì le manette con un clic sonoro. Regina lasciò che cadessero a terra senza voltarsi. Henkins alzò le mani. «Il veicolo era sospetto», disse un agente con sguardo severo. «Ora rimani ferma finché non arrivano i funzionari federali.»
Cole e Henkins rimasero paralizzati. Regina, ora senza manette e sotto controllo, riprese il controllo della situazione.
«Mi avete chiamata scimmia, schiava, troia. Mi avete ammanettata. Mi avete sputato addosso. Adesso controllate», disse calma. E alzando nuovamente lo sguardo, annunciò: «Attivate il protocollo straordinario.»

Il display si illuminò di rosso, il cronometro ufficiale cominciò a contare. Henkins tremava, Cole serrava i denti. Ogni parola da loro pronunciata era ora una condanna alla loro carriera.
«Sarete trattenuti qui», avvertì un agente, «l’unità JG Judge Advocate General sta arrivando. Avrete diritto a un legale. Le accuse preliminari saranno presentate entro poche ore.»
Regina mantenne la calma, con uno sguardo risoluto. I lividi e i segni delle manette erano evidenti, ma la sua presenza rimaneva ferma.
Cole inghiottì a fatica. Henkins, afflitto, ansimava. Regina osservò in silenzio mentre venivano condotti verso il veicolo governativo, senza violenza, senza scherno, semplicemente con la dignità di chi ha assistito alla propria caduta.
Quando tutto finì, uno degli agenti la interrogò. «Desidera essere scortata?» «No, posso affrontare la situazione», rispose. Guardò l’orizzonte, fredda e determinata. Era finita.
La trattavano come spazzatura… fino a quando non contattò il Pentagono. E quella chiamata cambiò tutto.